Anche il tifo diventa aggregazione
Le trovi a ogni angolo della città. In genere sono scritte di vernice blu, slogan, altre volte piccoli capolavori di arte graffitara. Si parla delle tracce lasciate dagli ultras partenopei un po’ ovunque a Napoli. E intendiamo Napoli nella sua estensione più ampia, di grande metropoli. È evidente che la cosiddetta sottocultura ultras costituisce una componente di assoluta rilevanza nell’immaginario dei giovani, non solo da queste parti naturalmente. Certo a Napoli il fenomeno è molto presente. Ma che tratto vogliamo assegnargli? Semplice fanatismo? Addirittura affermazione di un ideale violento, di una pratica semplicemente estranea alle leggi e ai codici del vivere civile? O forse è il caso di porsi qualche interrogativo in più, e tentare di comprendere che cosa c’è di buono, di promettente, in un processo aggregativo che coinvolge migliaia di persone?
Va ricordato che sulla tifoseria napoletana esiste una amplissima letteratura, si può tranquillamente dire una “mitologia”. Dal contenuto in gran parte positivo, tanto da suscitare citazioni quasi sempre ammirate. Vale per tutti l’esempio del famoso striscione esposto nel dicembre del ’96 dalla curva B in occasione di Napoli-Verona: “La storia ha voluto: Giulietta zoccola e Romeo cornuto”. È un lampo di geniale irriverenza citato ormai sistematicamente ogni volta che azzurri e scaligeri si affrontano. Si tratta di una risposta gioiosa e goliardica al razzismo cupo degli ultras gialloblù. Che prima di quell’episodio si erano prodotti in squallidi conati di antimeridionalismo, culminati con drappi con su scritto “Lavatevi” e “Benvenuti in Italia”. In quello striscione “shakespeariano” risuona l’eco di una cultura popolare unica al mondo, della napoletanità più vitale. Ritroviamo la visione dell’esistenza fondata sulla capacità di sdrammatizzare ed evocata da Goethe nel suo “Viaggio in Italia”.
L’opinione pubblica comprende come i giovani tifosi del Napoli sappiano offrire una risposta esemplare a una certa tendenza xenofoba che in altre curve italiane si accentua proprio nel corso degli Anni Novanta. Di simili espressioni creative esiste anche uno specifico filone di studi: negli anni di Diego e degli scudetti la facoltà di Sociologia dell’università Federico II produce un gran numero di ricerche sulle curve del San Paolo. Poi con il tempo le cose cambiano un po’. Si “ritirano” uno alla volta alcuni dei capi storici della tifoseria: Gennaro Montuori detto “Palummella” del Commando ultrà, Tony Faiella e Tony Morra dei Blue Lions. Le nuove leve si fanno strada in modo spesso confuso e agitato. E progressivamente il tratto dell’intemperanza, della ribellione violenta ruba la scena alla precedente immagine festosa.
In realtà, anche in passato la torcida partenopea era stata additata come particolarmente turbolenta. Sì, colorata e appunto fantasiosa, ma anche difficile da controllare in termini di ordine pubblico. Oggi questi due aspetti sono entrambi presenti, in un equilibrio sempre sul punto di sbilanciarsi. Seppure segnate da una forte carica aggressiva, le sigle che presidiano le due curve di Fuorigrotta mostrano di avere anche una notevole capacità di presenza sui problemi della città. Lo si vede con grande evidenza in un momento drammatico per la squadra di calcio: il fallimento del vecchio Club, nel 2004. In quella occasione i gruppi ultras non mancano di contestare le stesse istituzioni cittadine – guidate all’epoca da Iervolino al Comune e Bassolino alla Regione – in quanto incapaci di mobilitare energie imprenditoriali che potessero evitare l’onta della retrocessione in C.
In una delle prime gare disputate in terza serie le curve del San Paolo allestiscono una scenografia con striscioni che recano il nome delle maggiori aziende scomparse dal tessuto produttivo locale, dall’Italsider alla Birra Peroni. Cioè riescono a denunciare in modo immediato ed efficace quella desertificazione industriale che era all’origine anche delle cadute sportive. Riscuotono attenzione anche in virtù della loro riconosciuta e apprezzata “apoliticità” (anche questa rara rispetto al panorama del tifo italiano) che allontana immediatamente da quegli striscioni l’ombra della strumentalizzazione politica di piccolo cabotaggio. Ecco un esempio di come ancora oggi i giovani possano mettere a valore l’esperienza aggregativa del tifo: renderla cioè un luogo di denuncia e di presenza nelle questioni cruciali della vita di Napoli. Sarebbe importante se questa modalità prendesse corpo in modo più chiaro e sistematico. Se c’è una cosa che serve come l’aria alla Capitale del Mezzogiorno è la capacità dei suoi giovani di coltivare e difendere la speranza proprio con la stessa gioiosa fantasia opposta ai razzisti del Nord in certi striscioni indimenticabili.