Torri a difesa della costa nel Regno delle Due Sicilie
Evocati come spettri tra le millenarie rocce modellate dal vento e spesso devastate dall’uomo, quasi vedette solitarie, pur guardandosi a vista, le torri costiere rimandano a un passato dominato da vele saracene, scorrerie di pirati, lutti, terrore e devastazioni. Le rapide incursioni delle fuste barbaresche hanno tormentato i sogni di questi popoli della costa di Amalfi che pure avevano regnato sul mare e dal mare avevano tratto benefici per una fiorente economia. Miscuglio di stili e di epoche, da quelle angioine a forma cilindrica alle vicereali di forma quadrata, le torri costiere sono sopravvissute al tempo e alle sue avversità. Non tutte sono visibili da terra, ma, viste dal mare, in contrasto con l’incredibile gioco di rocce, pinnacoli, valloni, macchie di verde mediterraneo, arrampicate col fiato sospeso delle circostanti ginestre, queste torri appaiono come un’incredibile ragnatela posta a difesa dalle avversità della storia. Più della natura, più di malattie, pestilenze e carestie, erano temute le incursioni dei turchi. Fra le inconsce sensazioni poste ai limiti della ragione, tra gli spazi infiniti del mito, quasi sporgenti dal fondo della leggenda di questo mare tormentoso e nel contempo immaginifico, gli antichi baluardi di difesa restano traccia insinuante di un passato inquieto.
Il disperato grido “mammaliturchi”, la ruberia del sole offuscato dall’acre profumo degli incendi appiccati durante i saccheggi sono nella memoria storica popolare con proverbi di oscuro senso, strofe e canti sospesi tra storia e leggenda, paura ed esorcismo contro il male. Le ballate ereditate, le nenie colme di scongiuri rimandano “lamento e pianto che fa il populo per essere presi, saccheggiati e morti dalla armata turchesca”. Più che di pietre vive, queste torri sono composte di pagine tragiche di una lunga storia di assalti, eccidi spietati, ruberie devastazioni, sequestri di giovani vite trascinate in schiavitù. Così, fu l’assalto a Cetara del 1534 a opera del feroce Sinan Pascià, che catturò ben trecento cetaresi, mettendo a ferro e fuoco il paese. E ancora si parla della strage del giugno 1543 quando cinque galeote turche, guidate dal terribile Barbarossa, ammiraglio della flotta di Solimano II, assaltarono Conca dei Marini, saccheggiando il centro e profanando la chiesa di San Pancrazio. Né le incursioni e le razzie risparmiarono Vietri sul Mare per il suo fiorente porto di Fuenti: memorabile fu quella del 1587. Forse è leggenda, ma a noi piace credere che sia storia l’alto grido di “Posa Posa!” imperiosamente disceso dal cielo nell’urlo della tempesta scatenatasi intorno alla tartana saracena che aveva a bordo la trafugata icona bizantina della Madonna nera di Positano.
Si decise, così, che a difesa delle coste, dei paesi, degli abitanti era necessario costruire un reticolo di torri, di difesa e avvistamento che “segnalano allarme col fuoco di notte e col fumo di giorno”. Quelle poche esistenti, costruite dagli Angioini, si erano rivelate insufficienti a contrastare la potenza sempre più arrogante dei turchi sobillati anche dai francesi che mal vedevano il predominio spagnolo nel vicereame delle Due Sicilie. Fu così che sin dal 1532 si avvertì l’esigenza di un sistema di difesa più articolato. Primo a pensarlo fu il viceré don Pedro di Toledo, ma si dovette attendere il 1563 perché donParafan de Ribera duca d’Alcalà imponesse ai giustizieri provinciali il completamento delle torri a spese delle università. Volle che fossero a vista l’un l’altra “affinché, vedendo fuste, facessero fuoco di continuo e che tutte dette torri dovessero corrispondere l’un con l’altra nel tirar mascoli e nel far foco”. Per edificarle vi fu il concorso dei famosi “magistri murari de la Cava”. Ma, come ancora oggi avviene sovente in Italia, quando il sistema difensivo fu completato non era più utile: nel frattempo vi era stata la battaglia di Lepanto nella quale le navi cristiane avevano definitivamente sconfitto la flotta e le armate saracene. Esse, però, sono resistite al tempo e ben ventidue, si ergono lungo il tragitto di costa che da Vietri giunge sino a Positano.
Alcune sono abitate, altre trasformate in locali pubblici, altre ancora sono in vergognosa rovina. Quasi tutte hanno un nome: la Crestarella a Vietri, Capo Tummolo e Lama del Cane le due di Erchie, Torre Normanna e Mezzacapo a Maiori; a Ravello vi è lo Scarpariello, mentre è chiamata Tumulo quella a Capo d’Atrani perché vi si esigeva la gabella di un carlino per ogni tomolo di grano. E c’è a Scala quella dello Ziro, la più alta, dove fu rinchiusa la duchessa Giovanna d’Aragona, rea d’amore. Quella di Capo Vettica, si affaccia sulla baia della Grotta dello Smeraldo e, a Positano, si chiude la sequenza con tre torri: Sponda, Trasita eFornillo o Torre di Clavel, che il letterato svizzero scelse come sua dimora durante gli ultimi anni della breve esistenza. Storia e leggenda si sono sempre intrecciate intorno a queste mura ricostruite, trasformate, lasciate in decadenza, ma sempre lì a testimoniare un passato antico, ma anche a scrutare l’ultimo orizzonte, semmai con gli occhi di due fidanzati poggiati a quelle antiche mura per rimirare una ruffiana luna.