Quatto ‘e Maggio
Una situazione di disordine o di frastuono viene, solitamente, definita dai partenopei come un Quatto ‘e maggio. Il perché è presto spiegato: questo fu il giorno dell’anno indicato dal Viceré Pedro Fernando de Castro, nel 1611, in cui ai napoletani era consentito traslocare. Si può solo immaginare la gran confusione che ogni 4 maggio regnava in Città. Ma la confusione a Napoli diventa sempre occasione di festa. Una grande festa popolare. A descriverla nell’articolo che segue è Federico Verdinois (Caserta 1844 – Napoli 1927), scrittore e giornalista napoletano che fu per qualche tempo direttore del Giornale di Napoli, collaboratore del Fanfulla di Roma con lo pseudonimo di Picche, e dei più importanti giornali napoletani, particolarmente del Corriere del mattino, di cui diresse la famosa terza pagina.
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È la festa delle feste. Piedigrotta, Montevergine, Natale, Pasqua, la Passione, il Corpus Domini, la Madonna della Neve, la Madonna delle Mosche, San Paolino, lo stesso San Gennaro, e tutte le 365 feste del calendario napoletano, cedono il passo alla grandiosa festa paesana che ha il potere di scuotere dall’ime viscere l’intiera città.
Napoli scasa. A un dato giorno, a una data ora, tutti son fuori. Vuote le case, ingombre le vie. L’immane pellegrinaggio di tutta una popolazione si svolge e si avvolge in sé stesso in tante spire mostruose, fatte di uomini, donne, bambini, carri, materassi, piramidi cigolanti di masserizie, animali domestici, libri, vasellami, opere d’arte, attrezzi culinari. Pare che la città voglia uscire da sé stessa; invece non fa che rientrare in sé stessa. Gli emigranti immigrano. Alle diciotto ore del giorno appresso (le ore, in questi giorni di festa tradizionale, si contano all’antica), tutto è a posto, tutto ha ripreso l’aspetto normale, tutti son dentro.
Così pare, ma non è così. Invece, tutti son fuori da capo. Si può dire di Napoli quello che Amleto diceva del mondo. «Il mondo è una vasta prigione, di cui ogni città è una cella». Con questo però che nella vasta prigione di Napoli ci si sta volentieri e che nelle celle non ci sta nessuno. Le celle – cioè le case – son fatte pei mobili. Ogni anno i mobili hanno da pigliare il fresco, e passano da una casa all’altra. Gli uomini non ne hanno bisogno. Seguono un po’ i loro mobili per insegnar loro la via, e per conto proprio vivono all’aperto. La casa di tutti ha la più bella volta che mai architetto abbia gettata: il cielo: – le più luminose lampade che i meschini Edison terrestri abbiano mai ideato: le stelle: – il più ampio balcone che abbia mai dato sulla più splendida vista del mondo: il golfo dalla curva dolcissima e il mare tranquillo che pare un lago, sul quale dorme il Vesuvio e si cullano le isolette.
Parlo, naturalmente, del popolo e della borghesia. Il popolo, non solo vive all’aperto, ma lavora all’aperto, dorme all’aperto, mangia all’aperto… ed ahimè! è costretto a fare molte altre cose all’aperto. L’aria mite lo seduce, la tana oscura e fetida che gli servirebbe da casa, se fosse una casa, lo scaccia. E cosi voi vedete tutta una famiglia sulla via, il padre che pialla uno stipo o intaglia una cornice, o trapunta uno stivale, o batte il ferro, – la madre che fa la calza o il bucato, – i bimbi che si vanno voltolando nel rigagnolo. Le seggiole son fuori; gli amici e le amiche arrivano e pigliano posto; si rizzano tavole da giuoco e da banchetto: ogni cantonata, ogni piazzetta, ogni angiporto si trasforma in salone. Questo, di giorno e fino a tarda sera. Di notte, specie in estate, quando le conversazioni si sciolgono, si vedono molti di quei convitati stendersi sul lastrico e dormirsela saporitamente. Molti bambini si fanno letto di una sporta, che il giorno è forse servita loro a raccogliere le immondizie. Altri dormono ammonticchiati in cinque e dieci, con indifferente promiscuità di sessi e di cenci. Né la scena malinconica muta, quando l’inverno infierisce, quando il lume delle stelle e sostituito dall’umido della pioggia, quando il materasso è più soffice perché di fango. Per questo popolo, allegro e noncurante, si pensa ora di costruir delle case che sostituiscano le tane: con questo, però, che se le tane sono inabitabili per angustia, le case saranno inabitabili per altezza di pigione.
E allora, più che mai, il popolo scaserà, farà cioè il suo 4 di maggio, senza rincasare. Allora, più che mai, il cielo ampio sarà la grande tettoja di tutti. Allora, aboliti i luridi fondaci, tutta Napoli sarà un fondaco. Descrivo, non discuto. Vivono all’aperto anche i borghesi. La naturale espansione della gente del Mezzogiorno si afferma anche nella costruzione delle case. Ogni casa napoletana, nei piani superiori, sente il bisogno di espandersi per via di terrazzi e di balconi. Di finestre ce n’è pochissime. Le terrazze sono orticelli; i balconi sono giardini pensili. E sull’uno e sugli altri, si vedono tutti i giorni – e si sentono – gli inquilini in maniche di camicia e le inquiline in sottana, quelli che pipano, queste che ciarlano. I fatti di ciascuno sono i fatti di tutti: il vicinato è una sola famiglia: tra le inferriate dei vari balconi è stabilito un completo e complicato sistema di cordami e di panierini volanti, pel più agevole scambio di notizie e di piccoli servigi quotidiani. Il borghese, come il popolano, vive fuori, ma più in alto. Ha scasato anche lui, cioè ha trovato un nuovo posto pe’ suoi mobili e nuove conoscenze per sé e per sua moglie. In effetto, e per conto proprio, la sua vera casa è sulla terrazza o sul balcone.
Epperò quando scende nella via, è difficile ch’egli entri in quelle case provvisorie che si chiamano Caffè. I Caffè di Napoli sono meschini e spopolati. La clientela preferisce la Villa, Santa Lucia, Posillipo, Piazza Municipio, il Molo, Piazza Cavour. Qua e là si mangia e si beve al cospetto del cielo e rallegrati dai suonatori ambulanti. Alcuni, ancora più desiderosi dell’aperto, se ne vanno a dirittura a mare e passeggiano in barca pel golfo. Più dell’operaio, il borghese sente il bisogno della nuova casa, e prende parte con gioja alla festa del 4 maggio: dico il borghese mezzano, dalla fortuna modesta e dalla numerosa famiglia. Le montagne di mobili, che vanno barcollando per le vie della città, sono proprio sue; e si urtano e si confondono colle sdruscite masserizie dei poveri e pare che godano anch’esse dell’aria libera e dell’azzurro, e ridano attraverso gli spacchi e gli strappi, e non abbiano più coscienza della loro miseria. Il 4 di maggio è uno sventramento periodico, a data fissa. Ecco perché dello sventramento ufficiale non si danno pensiero che coloro i quali tentano di sfruttarlo. La maggioranza, la gran massa, lo considera forse come un 4 di maggio più solenne… e più costoso. I soli; che non facciano per sistema il 4 di maggio, sono i membri del gran mondo. L’aristocrazia, di natura sua è conservatrice. Al cielo fatto di stelle preferisce i cieli dorati dei suoi saloni. Non si mescola alla vita degli altri, perché qui più che altrove essa fa vita da sé, chiusa nella cerchia breve delle sue abitudini, delle sue società, del suo nobile ozio, del suo lusso. Il 4 di maggio non è fatto per lei, – che non si muove. È una festa di carattere assolutamente popolare, alla quale tutti prendono parte e che ha l’impronta allegra e chiassosa di tutte le feste napoletane.