Il giardino delle meraviglie in via Foria
Conservare le radici in un ritorno alle origini bucoliche della Città. Questo il sogno di Alice Bartoli e Stefania Salvetti, due giovani architette, determinate a invertire la tendenza che ci allontana sempre più dalla Madre Terra e dalla conoscenza delle origini agricole della Città, fino a farci perdere anche la cognizione del ciclo delle stagioni. I meno giovani ricordano quando peperoni, melanzane zucchine carciofi erano disponibili solo in determinate stagioni dell’anno o quando i fiori di mimosa annunciavano la prossima primavera.
Per raggiungere l’obiettivo queste due sognatrici hanno condotto uno studio sugli spazi verdi abbandonati all’interno del perimetro urbano. Hanno deciso di lanciare una sfida. Perché non recuperare il tempo in cui la città di Napoli riusciva a soddisfare con i suoi prodotti della terra la richiesta degli abitanti. Anche se oggi le condizioni sono cambiate, la popolazione è aumentata e gli spazi verdi diminuiti, si può ancora creare un’economia agricola urbana con nostri prodotti d’eccellenza e soprattutto a chilometri zero. Sarebbe la salvaguardia di antiche tradizioni e di un patrimonio di biodiversità che altrimenti andrebbero persi per sempre.
Lo strumento che hanno ideato per raggiungere l’obiettivo è l’Associazione LaDU, acronimo di Laboratorio di degustazione urbana. La loro base operativa è un posto improbabile, uno spazio verde inglobato tra i palazzoni della trafficatissima via Foria, sede del primo vivaio napoletano, l’antico Stabilimento botanico Calabrese, proprio di fronte l’Orto Botanico, oggi Vivaio Calvanese (la storia di quest’affascinante struttura è in coda all’articolo).
“L’obiettivo principale che ci siamo poste – spiega Alice Bartoli – è l’ottimizzazione e lo sfruttamento delle superfici coltivabili o definite comunque ‘vuote’ del sistema urbano cittadino. Parliamo di lotti abbandonati, tetti, cortili, giardini, che a Napoli abbondano. Tutti questi spazi hanno grandi potenzialità”.
In questo momento, il progetto è nella fase della mappatura del sistema urbano napoletano, evidenziando i cosiddetti “vuoti urbani”. Tutto avviene attraverso la Rete Internet, mettendo in correlazione, attraverso Google Maps, tutti quei cittadini che vogliono segnalare o dare la loro disponibilità del proprio piccolo spazio a ogni tipo di attività.
“La coltivazione, l’organizzazione di eventi e la stessa forza lavoro per una riconversione dello spazio – aggiunge Alice – potrebbe essere una strategia per creare nella Città una rete di cicli ecologici produttivi locali chiusi, collegati e interdipendenti gli uni dagli altri”. Stefania Salvetti, che ha ereditato dal padre la grande passione per le piante, si è già spinta oltre: insieme col marito, ha acquistato un antico rudere e un pezzo di terra incolta tra i vicoli che si arrampicano sulla collina alle spalle dell’Orto Botanico e si è inventata “contadina urbana”. Produce per sè stessa, ma ciò che le avanza va a ruba. “Tutti cercano – conferma – i prodotti genuini e locali della nostra terra. Anche se vendessi l’intera produzione, non ce la farei mai a coprire le richieste.” Questa è la prova concreta che l’idea delle due architette può avere un brillante futuro. “Si tratta – sostiene ancora Stefania –anche di un modo per salvaguardare il territorio, per difendere un verde antico, sempre più minacciato. Se non dalla costruzione di nuovi edifici, certamente dalla fame di parcheggi per automobili”.
Con questo obiettivo, il LaDU ha avviato una collaborazione con le Associazioni che operano sul territorio, allargando di molto il numero delle persone coinvolte nella capillare campagna di sensibilizzazione a favore dell’agricoltura urbana, della difesa del territorio e delle antiche specie vegetali napoletane. Da diversi mesi le due architette organizzano nella sede LaDU laboratori di degustazione dei prodotti delle terre urbane. Il loro capolvoro, almeno a sentire i partecipanti agli incontri, è una marmellata di corbezzolo. Anche questa frutto d’un’antica ricetta partenopea. Spesso, con le loro iniziative fanno riferimento agli spazi messi a disposizione dal vicino Orto Botanico, ma per il resto, hanno riaperto la Koffehouse ottocentesca, nata dalla passione della signora Rita Stern, moglie di Francesco Calabrese, figlio del fondatore del vivaio. Ne hanno ristrutturato l’interno con un’attenta opera di recupero. Colpisce il piccolo studio della Stern, rimasto intatto, con le sue miniature, dipinti, posizionati sui i muri accanto alle tante fotografie e storie documentate della famiglia Calabrese, i viaggi, le mostre, la passione per la botanica e le amicizie. “Questo è un posto magico, che piace molto alle persone. – conferma Stefania Salvetti – Qui si respira aria d’altri tempi. Già le fotografie, da sole, raccontano una storia e la Città. Ci sono, ad esempio, le immagini di Pupella Maggio e di Eduardo De Filippo, che molto spesso, finite le prove nel vicino Teatro San Ferdinando, amavano trascorrere qualche ora nella Kaffehouse del vecchio vivaio Calabrese che, in quel periodo era un vero caffé letterario”. Il progetto di Alice e Stefania è una moderna versione dell’antico “giardino dei semplici”. Un’idea che sembra utopia, ma che, a dispetto degli scettici, sta raccogliendo sempre maggiori consensi e seguaci.
Quando le piante raccontano la storia
Un pezzo della storia di Napoli ancora si conserva, quasi intatto, al numero 234 della trafficatissima via Foria, proprio di fronte all’Orto Botanico, all’interno del settecentesco palazzo realizzato dall’architetto Pompeo Schiantarelli. È l’antico Stabilimento Botanico Calbrese (oggi Calvanese) fondato nel 1864 da Franceco Saverio Calabrese, appassionato di Botanica. Fu il primo vivaio realizzato a Napoli, reso famoso dal figlio del fondatore, Francesco Paolo e dalla moglie di quest’ultimo, Rita Stern, grande viaggiatrice e vera anima della struttura. Francesco Paolo fu anche l’autore, nel 1892, della “Nomenclatura botanica vulgare”, un trattato che individua e illustra le specie vegetali napoletane e l’uso che se ne può fare secondo antiche tradizioni partenopee. Lo stabilimento fu realizzato con nove serre, sull’impianto di quello che era un giardino del Cinquecento, e presenta ancora oggi un sistema di riscaldamento a vapore ottenuto da una caldaia a carbone. Un progetto all’avanguardia per il periodo in cui fu realizzato. Ancora oggi, tra i viali del vivaio costellati di piante esotiche e rare, condivise con l’orto Botanico, si trovano tante mattonelle in ceramica, fatte realizzare da Rita Stern, con proverbi e frasi, che raccontano lo spirito del tempo e il grande amore che la donna e il marito nutrivano per le piante. Si va dal “Noi giardinieri siamo gli ultimi romantici” a “Il miglior modo mezzo per aumentare la felicità è quello di dividerla con altri”. In quello che fu l’ufficio della Stern, conservato integro, è ancora possibile ammirare foto che raccontano di un’epoca ormai lontana, dalle immagini di famiglia a quelle che riprenono luoghi della Città ormai scomparsi, come la Birreria Bavaria che aveva sede di fronte al Teatro San Carlo o la vecchia sede dell’Hotel Continental.