Favole campane nel Mondo
All’ombra del Vesuvio, sono nate molte delle più celebri favole per l’infanzia. I fratelli Grimm, Charles Perrault e Italo Calvino, hanno diffuso nel mondo fiabe della nostra tradizione popolare orale.
L’uso di narrare storie fantastiche affonda le sue radici in un tempo remoto quasi mai databile. In moltissimi casi si è riscontrato che la favola, il racconto o la fiaba sono stati tramandati, contemporaneamente, in Paesi diversi, lontanissimi tra loro pur se con le diversità dovute agli usi e ai costumi di ogni popolo, senza poter appurare con certezza se in qualche caso ci fosse stata contaminazione. «Noi sappiamo, è posto ormai fuori d’ogni dubbio – scrive Vittorio Imbriani nel 1875 – le nostre fiabe essersi narrate appo i Greci ed i Latini, come si narrano appo noi». Basti pensare alla storia di Psiche e Amore che ha ispirato fiabe e novelle in ogni epoca. Origine simile, ma diversa hanno, ad esempio, la storia della Tartaruga, quella delle Tre piume, quella dello scemo del paese che cambia nome a seconda del luogo di origine. Storie somiglianti tra loro si ritrovano nelle raccolte italiane come in quelle russe e, prima ancora, nelle fiabe arabe, persiane e in quelle della classicità. Quale che sia l’origine di ogni storia e il significato che assume per gli adulti e per i piccoli, quello fantastico è un patrimonio che arricchisce la cultura di ogni Paese.
La Campania è una delle regioni italiane più feconde di tradizioni favolistiche, infatti, dai racconti che ebbero origine nelle sue province, nacquero molte delle più celebri favole per l’infanzia. I fratelliGrimm, Charles Perrault e, più tardi Italo Calvino, hanno diffuso in tutto il mondo fiabe e favole che appartengono alla nostra tradizione popolare orale. Somiglianza con le nostre favole si trovano anche nella raccolta pubblicata nel 1864 dal russo Afanasiev, che ne aveva studiato il significato primitivo, religioso e mitologico e che fu molto influenzato dalla figura di Garibaldi del quale, nel 1860, si parlava un po’ ovunque.
Nelle favole della Campania c’è il Medio Evo ed il barocco, ci sono gli Angioini ed i Borboni. C’è Virgilio e ci sono i classici della latinità. C’è la tradizione tramandata oralmente dalle classi dominate e c’è la nuova tradizione napoletana voluta nel 1200 dagli Angioini. Questa dinastia organizzò la cultura nella nuova capitale del Regno. In quegli anni a Napoli circolavano libri e uomini colti e i nobili francesi influenzarono a tal punto gli usi locali frammischiando i propri ad essi, a quelli orientali e a quelli delle altre regioni d’Italia già attecchiti, da dar vita, appunto, ad una nuova tradizione, ma questa volta di carattere colto e non più popolare. Le favole, le fiabe, i racconti non invecchiano mai, portano i segni della storia, delle dominazioni, dell’evoluzione dei costumi, della diversità tra razze, ma rinascono sempre: ogni volta che le si racconta sono come nuove e vivono della voce di chi le riporta agli ascoltatori. Naturalmente la lingua scritta non può ripetere gli stessi canoni del parlato, colui che ha messo su carta le storie popolari ha dovuto mediare tra il dialetto e la lingua, ha dovuto tralasciare immagini e gestualità, ma ha potuto ricreare le ambientazioni, le cadenze linguistiche, l’atmosfera che si respirava accanto al fuoco, o intorno al tavolo per la cena o nei campi durante la raccolta del grano o la battitura delle pannocchie.
Fu Gian Battista Basile, nel XVII secolo, il primo letterato a trascrivere i testi delle tradizioni mitologiche campane orali con l’intento di farne un’opera completa. Del resto è proprio nel Seicento che il genere favolistico si afferma in Europa come opera letteraria, tutt’altro che tradizionale o popolare: rappresenta piuttosto un’invenzione che tratta questo prodotto letterario come dotato di valore in sé.
Tanto avversato all’epoca, lo scrittore napoletano è stato a gran fatica «riabilitato» in seguito, grazie agli importanti studi critici effettuati e pubblicati da Benedetto Croce e Vittorio Imbriani, ma mai del tutto elevato al rango di grande scrittore. Innanzitutto a causa della lingua: scriveva nel dialetto dell’epoca e non in italiano; e a causa dei contenuti ritenuti sconci. Il suo Cunto de li cunti, insomma, sarebbe stata una cattiva, deleteria ed inutile imitazione del Decamerone. Egli si ispirò a quei racconti chiamati fiabe, che sono di origine mitologica, nelle quali si ritrovavano i resti di credenze antichissime e di personificazioni dei fenomeni naturali e delle passioni umane, e la manifestazione fantastica di quel panteismo spontaneo, che fu forse il primo pensiero religioso della nostra razza. Tra gli studiosi contemporanei più attenti e costanti della tradizione orale campana, c’è sicuramente, Roberto De Simone. Da decenni conduce un’accurata ricerca nei centri anche più remoti della nostra regione. Studioso soprattutto del patrimonio musicale popolare, egli ha rilevato che il linguaggio di gran parte dei racconti registrati dal vivo è «un dialetto di uso quotidiano, affiancato da una serie di linguaggi più arcaici, caratterizzati da una letterarietà convenzionale, assai vicini alle strutture in versi del canto popolare.»